Copertina del libro di poesie "MAREE"
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Sergio Ghio
Maree
POESIE
Parte Prima
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Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge
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PREFAZIONE
Sergio Ghio,
poeta e scrittore, è noto e assai
apprezzato nel panorama culturale italiano, soprattutto per il suo modo incisivo di reagire attraverso le pagine
che abbracciano una varietà di temi
suscitando un senso di positività al
lettore. Le liriche,
come una
sorgente inesauribile di vita e gioia, sono come prosciugate
di silenziosa dignità che superano senza clamore qualsiasi
ostacolo. La lirica di
Sergio Ghio nasce da una vera e propria riflessione con la
volontà di dipingere con le parole,
immagini e sensazioni.I colori delicati tipici di un
acquarello in cui riscopriamo i dolci suoni della natura, sono rappresentati
con rara semplicità.
Lo stile inconfondibile
di Sergio Ghio è personalissimo, incisivo ed originale mentre i suoi versi ci colpiscono
per l’intensità di
espressioni ed immagini
che mutano continuamente e si connotano suggestive ed evocative, denotando
la straordinaria capacità del poeta che li traduce, modella e li rende sorprendenti come un
vero cocktail di talento ed amore verso la lirica.
Biagio Di Meglio,storiografo
del cinema nonché presidente Dell’Accademia
Universale“Giosuè Carducci”.
Angelov Svilen,poeta e scrittore,Presidente del Centro Cul-turale “Nuovo
Arcobaleno”.
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Alla pietra?
Donne dai volti antichi sono
fiori
muniti di radici, si
allungano ai balconi
che paiono lapidi.
E la mano di Javè annodata
alle maree
scolpiva Polene davanti alle
dimore
fiorite, la giovane scalza dai
lampi
biblici giù nel bosco
faceva da luna a guardia
delle more.
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MARE PAGANO
In cima a una via d’orti
timo e basilico agli usignoli
del mare
l’ho trovata: Madre Passione!
Coi cento baci alle labbra
e brividi d’un nome
tormentato
all’ebbrezza che vive di tela
azzurra
come una violenta vela
profumata
sfiancata dai singhiozzi del
rollìo;
marea che ruggisce
all’allodola
fino ai civici arenili
bianchi di scapole,
disfatti dal crepitare dei
concerti
dei caffè lucidati sulle
panche,
dalla mano che ha perduto la
sua bocca.
Qualcuno dirà alle porte profanate
di Elene nere dove i profumi
al delirio
di fiori marini sconsacrati e
appestati
di scaglie e aghi annodati ai
temporali,
torturano ogni sovrumana
promessa
cristallizzata nell’occhio
del cardo
che spacca i sogni senza
domani.
Quel sostanziale appunto
incatenato
e disfatto, di lampade e
merletti
di seni a flutti nella veglia,
sul dorso di legni
galleggianti notturni
che si figgono come lische
mortali
alle labbra dello specchio
vuoto,
in ogni pietra annerita che
qui è nata
in volo, nel cuore delle
maree.
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NOVECENTO…
Quanto era dolorosamente vero
il suo varco aperto segreto
l’uomo uscito dall’albero del
Sonno
dove Eva mangiava l’amore
umano
e l’usignolo beccava la mela
nei lampi dell’immaginazione.
Dove le ragazze correvano
dicendo il mio nome
seminando una selva d’incendi
solchi nella terra senza
orrori
e quel buio che nessuno
vuole.
Il mio salpare scamiciato ai
venti!
La
notte uscivo col volto d’un bambino
senza
trovare quel che cercavo,
tutte
le margherite sfogliate
nascevano dai miei sonni
inceneriti.
E i vecchi al lutto del sole malato,
prendere forma nella carne
trasecolata e frusta
come neri dipinti.
Quando l’aurora del novecento
parlava fra le mie palpebre
maledettamente arrogante.
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ASSIDUE AFFINITA’
La poesia all’ancora,
il coltello d’oro del sole
infilato nella piaga dalla
vita alla morte,
e le ragazze dai denti
scintillanti
e il miele tra le dita
dell’insonnia
mordono melograni e la loro
infanzia,
trovano i gelsomini che
dormono
sull’ombra millenaria di
Venere;
e il tac del bambù sognando
risuona sul cuore rugoso dell’ulivo,
fino nelle mie vene al tronco
dove scorre il sangue
dell’uomo.
Il vento che fa suonare la
pietra
sotto l’alchimia del Blu.
E il vecchio Bue continuò a
sudare
l’equità sopra la terra dei
nove campi
in un’ombra sopra la luce,
in un mare di lunghe trecce
alla finestra
le madrepore bambine con gli
occhi dei deliri
inzuppano la disperazione
nella saliva
delle lumache sulle bacche
dell’eucaliptus
fino all’occhio socchiuso di
Palestina.
Vedo un’orma fatta testa sulle
ultime ceneri
gli usignoli che spezzano i
vetri,
Tre donne intorno al sangue
del piolo
piangono ai piedi del monte,
il panno freddo di stelle
che morde le tempie del
morto.
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DOVE SI FERMA IL MARE
Io non conosco nessun luogo
dove si ferma il mare alla
meditazione
a una casa espropriata e
lacerata
affacciata a consanguinei
ossami,
i denti della morte
incastonati nei vetri smerigliati.
Dove il cielo cade in
frantumi di colori
brontolii e latrati,
gli scogli hanno mutato il
coro,
vivendo quegli schiocchi
secchi madornali
e i bambini mangiano a morsi
la bellezza
crudele della solitudine
profanata.
Tale luce nel sangue tornerà
quasi ereticale su un piatto
d’oro
coagulata negli specchi degli
armadi
nella carcassa d’un muro
silenzioso
a covare ancora le radici del
sottosuolo.
Dove ancora trema l’invisibile
mano
ai frutti rossi calcificati
sulle chiome,
gli ovali biondi dagli occhi
di pizzo
quel riflesso del mare
inginocchiato
alle pupille come marmo
bianco
di chi se ne andò frastornato
dal delirio
di una pietà sconosciuta.
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MARCISO
Allora, dilaniati dal nero
germoglio
getteremo il fiore marcio di
Narciso
come una radice ammirata
di ciò che non siamo,
la morte non vissuta
la pietra della contrizione;
frantumeremo lo specchio
d’acqua
che riflette il viso perduto
sigillato nell’indulgenza degli
orrori
con la cassa armonica della
nostra voce;
e spenta la nostra tempesta
sul fianco d’una morbida costola
accenderemo un nocciolo di
luce
fiorito su ciglia immense
dove le ossessioni erano
reliquie
della nostra infanzia
di cadenze e paragoni,
di cuori battezzati così
simili
anche se divisi dai dubbi
prematuri
di santi abbracciati
divinizzati
nei baci più veloci del
fulmine.
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L’ORIZZONTE
DANZA
Quel cuore fiotto di sangue
odoroso di salmastro fra le
mie palpebre,
ha il fruscio dei capelli
mollemente espiati
nei brividi delle ombre
favolose.
Il suo respiro nel vento nel
camino
moriva nella scia delle
formiche portatrici
sui muri allattati dai succhi
immondi
e dove non ci sono più i
nespoli alla sete.
Quando il mio passo aveva un nome,
morsicato dal petalo più
lieve
del tuo vestito in fiore
e alla luce delle lampade del
Tigullio
fiumi di mani appassite
gettano le allodole
dove muoiono le agonie degli
ostiari,
nei graffi lividi e torbidi
dei vetri tormentati.
Vecchi ottoni e i seni di Annina
seduta con l’occhio d’oro sul
sofà,
come voce d’ossa fradice
trapassate.
Alla mia tempia come una
mammella
leggeva notti di solitudini corrotte
perlopiù le sue pagine
immortali
rosse di mogano e
bianco-latte
nel fiato incarnato negli
specchi.
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FUOCHI
E MILLE SEMBIANZE
Alla chiarità di quei fuochi
stravaganti
sempre affamati di
splendore e morte
getteremo alle fiamme
procacciatrici
le nostre sembianze
frugate da mille lame,
ai vibranti salici
maligni
che hanno pianto le
nostre pallide ore,
la polpa brucata dai flutti
e l’azzurro sognatore
in seno al suo ruggito
ai piedi delle supine
acacie.
Perfino tu, poeta,
con quel viso
appassito sulle foglie,
le parole dormono nei
tronchi
polverizzate nel vento
sulle bocche
del’epidemia
sui carapaci delle
tartarughe
addormentate come gli abiti
deposti negli armadi.
Con Arte!
E dove i cigni arroganti
e stupendi
con occhi di brace
ammontano a decine
più candidi di raggi
bianchi,
Diana portando ombra e
miele
verrà a consolarci con
le sue fruste
scapole tra le verdi
abetaie,
dove sgusciano faville
che ardono
che non vogliono
morire.
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LA FINESTRA
Segui quella via;
lascerò aperta la finestra, e
ogni
soffio che ferisce ogni
taciturno
sogno che cammina scomparirà.
Ma io non riuscivo a
toccarti;
le dita servono soltanto per
il cuore
nella mia casa che non è più
mia
dove gli azzurri Martin
trafiggono i costati
a quella solitudine di venti
di unghie di stelle, di luci
ammarate
sembianze di cupole celesti
rimbombanti.
Per uno di quegl’incanti,
i capelli delle stelle
cadevano
a boccoli e la traiettoria
della luna
cadeva sulla forma del tuo
viso.
Quando il sole smise di
brillare
nella stanza, e lo deposero
nel sepolcro sotto un monte
di sale.
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DIARIO
A
volte sotto l’ultima fiamma
vitrea
agli occhi delle finestre
una
chiglia tirata sulla spiaggia
evocava
il passato e scivolava
a
quella profondità stellata
che
ci ha contaminato e contiene.
E l’avvilimento
dell’esistenza
si
trasfigura quietamente
nel
marcio delle anime.
L’enigma
figlio di una decadente
angoscia
posava il piede
sulla
tessitura di una trama
fino
a sfiorarci il viso in volo.
Era
il nostro mutamento
che
sbatteva il destino sulle vetrine
come
le nasse preda delle correnti.
Ormai
convertiti a vivere senza rimorso
perché
nessuno dubiti che venga
accarezzato
nel vuoto delle vene,
la
commozione fantastica
l’alga
restaurata e viva
nelle
mani di un bambino.
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GIASONE
Lassù
in alto, il soffio dei pioppi è profumato.
Quell’odore
se l’ha portato via il vento
come
il sole e la corrente del fiume dell’addio:
-Dissi
a Argo di costruire la nave.
Sarei
sfuggito a Era come strumento della
sua
punizione che accecò Medea d’amore per me
fino
a spingerla al tradimento.
E Pelìa,
di verdi semi,
non
tornò giovane come un tempo…
Ora,
è vero, nell’atrio del nuovo mondo
si
pongono nuove pietre angolari,
ma
io sento il gracchiare del corvo
e
il canto stonato del rospo nel vento.
Il
soffiare del vento nella vigna svanita
e
la voce della scure sulla collina lassù.
Siedo
sotto un albero e dormo, come il sangue
imprigionato
nel cuore della luna.
Una
donna raccoglie more nel rovo,
e
un ragazzo sogna steso nell’erba, il riverbero
sugli
occhi. Sogna un albero,
coi
volti intagliati di nuvole grezze.
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VENERE ALLA FINESTRA
L’occhio impietrito d’un
sogno
dolcissimo sfioriva di
sgomento sul fitto
di un altro gelido fruscio
sul letto,
come farfalla in un bosco
d’autunno.
E l’oltre
soltanto un braccio indurito
sulla mia spalla,
dove un corvo di nervi vi
lottava;
ombra o eco, carezza della
tua mano
sotto un secolo atroce
d’ulivo,
piangeva un vecchio sfregiato
di cenere,
accovacciato sotto il cielo
che dorme
da cui cade un seme sterile
di memoria
sulle dita della terra in
radici pietose.
Poi la terra è solo la
Vergine nel dipinto,
nel vento spettrale di
trasfigurazione.
E sulle ciglia della luna
dell’infanzia
una donna si spoglia gelida
al sopravvivere
e fa risuonare un morso sul
latrato d’una cagna.
Dove mangiano morte i bachi
da seta
e rivestono crisalidi e
credenze religiose
agli angoli del terrore
mentre la sera
semina senz’acqua il suo
freddo alla gronda,
intorno piedi nudi che
pestano la vigna.
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METAMORFOSI
La notte al gemere
dell’insonnia
aspettavo sulla scogliera
l’infrangersi dell’onda
agonizzante
dove galleggiano tronchi
morti
e zampe di gallina con le
lame dei delitti,
l’occhio lascivo della luna
senza età
sotto la scarpata nera degli ulivi,
come la sabbia che tace nella
clessidra
alla deriva,
inesplicabilmente tra le
dita.
Davanti a noi muri acerbi di
intendimenti
e tra gli anemoni nei
bicchieri di lacrime
l’epigrafe strappata allo zafferano
delle nuvole divorava l’alberatura
dei semprevivi nell’appassita
solitudine,
che un soffio portò alle
nostre gole.
Passati i rovi dei suoi
capelli
stragli e spini,
la notte si levò il vestito
le rughe di cenere sulla
fronte;
una mano di rugiada aprì la
strada al sole.
Il rifiuto mi bruciò l’anima,
ma riscaldò tutte le mie viscere
della ragione.
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L’ANGELO STERMINATORE
Un giorno scese da una nube
di bronzo
lì sul mare, come morte
ammaestrata
come fulmine d’amore a ciel
sereno,
lucente sulla cresta d’un cavallone.
Le donne gli offrirono il loro seno
gli uomini l’odiarono di
schianti.
Fu come se i cuori si
incendiassero
d’occhi di melograno a quel
presagio
i boschi nelle talee dei
papaveri e le maree,
le maree salissero di saetta,
ossa e polvere
ad essiccare le pelli chiuse
nelle case.
Le sue mani di piume
non lasciavano nessuna
traccia di cancelli
né calchi di baci sulle
pietre,
-ah, quei baci,
breccie nel raso bianco
soffici piume nell’ebbrezza
delle ferite
dove il sole scende di
torture
al tocco delle dita
dove scaglionati dai sinistri
Oceani
non si stupiscono nemmeno i
fugacissimi
temporali che cercano il
cristallo dei bicchieri
né le pietose bocche sotto
gli alberi
nella restituzione della
primitiva esistenza.
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ATROPO
Tu chiama il nulla la mia
dimora
dove seguire il gregge delle
stelle
racchiude ogni pezzo di
tendaggio
illuminato dalla luna, e nel
riquadro
d’una finestra aperta si
trasfigura
sul viso della luna appesa
alla finestra.
Forse il gatto non ama il
topo
e poi lo divora?
L’erba umida e cristallina
non cattura
il tenero capriolo? E il
fruscio del ruscello
non placa ogni mano sacra?
Ed è uno strano trasalire
ciò che ama e insegue l’anima
dormiente
dell’uomo tutta la vita e poi
l’afferra
ostinatamente alla gola…
ci sono uomini che hanno
tesori di credenze
ma li osservo con estrema
solitudine:
Essi sono dei relitti!
Non spiegano il frastuono dei
paesi
Il dovere condonato
nell’oltretomba
il perché del mondo.
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